Sempre un paese
Sempre un paese e il suon d’una campana
ovunque vada porto dentro il cuore,
gioiello antico che la Valdichiana
tiene all’occhiello come il più bel fiore:
è il mio paese, là sulla collina,
cinto di vecchie mura medievali
belle di storia. Chi vi si avvicina
gode valori eterni, universali
che l’uomo fanno viver degnamente;
fede e speranza intrise di lavoro
son le migliori doti della gente
insieme all’altro autentico tesoro:
l’amore per lo studio e pel sapere.
Senti? Rintocca un don prima che annotti,
un don soave che mi fa godere
le bellezze di piazza Matteotti.
Sulla torre vetusta del palazzo
ove il comune ha l’Amministrazione,
un leone, tre spighe unite a mazzo
simboli antichi son di distinzione:
forza e coraggio ci indica la fiera,
le spighe, invece, fede in chi lavora
e cerca dignità nella preghiera
nel silenzio solenne in Santa Flora!
Meravigliosa piazza di Torrita
godi di lustro proprio e in più t’ammanti
del prestigio di chi con la sua vita
volle testimoniare che è davanti
la libertà, verso il nascente sole.
Del divino Alighieri una terzina
di Ghino il nome ancor ricordar vuole
scolpita in una lapide vicina
al portone che vuol la riverenza
per lasciare l’ingresso dentro i muri
ove fa deliziosa l’accoglienza
lo splendido Teatro degli Oscuri.
Da te diparton verso i quattro venti
i borghi principali del castello
per ritrovarsi a quattro porte uscenti
riuniti qual magia in un anello:
antica porta volta a cimitero,
Porta a Pago di nome, la più antica,
a meditar chiama sul mistero
della vita che passa. Un po’ a fatica
per chi giunge dal Piano, la Gavina
si lascia conquistare; debolmente
giunge la voce di una cittadina:
la Nencia fue che caparbiamente,
fedele a Siena come i suoi parenti,
gridar non volle mai il nome “Duca”;
la vita già le usciva tra i denti
ed ella rantolava: lu…pa, lu…pa.
Due passi entro la porta in sua memoria
chi per la libertà visse d’amore
“LUPA” scolpì per dire che la storia
tradir non deve il senso dell’onore.
Fuor delle mura, andare a passo lento,
passan davanti agli occhi in fitta schiera
le ombre di donne pie che dal convento
affidavano al Cielo una preghiera:
ha poche suore ormai quel luogo pio;
manca la vocazione per il velo:
sempre più rara sale verso Dio
l’invocazione mesta e verso il Cielo!
Nei pressi del convento delle suore
prende il nome ad oriente di quel “Sole”,
che vedere non può allor che muore,
la terza porta e delle prime viole
gode il profumo allor che primavera
il suo sorriso stende sul pendio
di Piè agli Orti e quando si fa sera
ascolta curiosa il mormorio
ed i pettegolezzi delle donne
riunite in cerchio ancora nello scialle
ampio scendente giù fino alle gonne,
il copricapo sciolto sulle spalle.
Nel gioco, così detto, del pallone,
dove a marzo ogni anno si rinnova
di pazienti somari la tenzone,
i ragazzi non vengono più a prova:
il tamburello ormai non è di moda,
il tac schietto altrove non fa eco,
la palla non si perde sulla proda,
altrove della vita si fa spreco.
In fondo al gioco, come abbandonata
sembri quasi Madonna delle Nevi;
nessun si siede sulla scalinata,
finì la compagnia di cui godevi.
Ogni tanto i giardini non lontani
giunger ti fanno l’eco delle voci
di pochi bimbi oppur di battimani.
Passano gli anni, passano veloci …
Ancor più avanti, ancora: Porta Nuova
a mezzogiorno volge la cornice,
là dappresso la gente si ritrova,
salutandosi, or tace ed ora dice.
Porte antiche, da cui prendono nome
le contrade che vivon nel castello,
non so perché, non so nemmeno come,
esser non posso più quel giovincello
che conosceste: il tempo come vola!
avevo fretta allor, dovevo andare
nel campo a lavorar dopo la scuola
e tempo non avevo d’aspettare.
Quante volte, scolaro elementare,
son passato per te, Porta a Gavina,
carico di quaderni da portare
accompagnando la Maestra Lina
che i rudimenti primi del sapere
con pazienza mi dette e con amore;
talvolta ancor passar mi puoi vedere:
solo non son, la porto dentro il cuore.
Indietro spesso torno col pensiero
e soprattutto allor che il passo muovo
tra i borghi. Oh, vorrei, ma non spero,
rincontrar chi incontrai e dentro provo
la nostalgia del tempo che, bambino,
vissi con tanti amici ormai attempati,
di devote preghiere in San Martino
e di cori struggenti, lacrimati.
Vorrei … Oh, se vorrei ... Ma non spero
del celebrante risentir la voce!
Don Otello non c’è; nel cimitero
riposa in pace con le mani in croce.
Riposa in pace, più non t’angosciare
se c’è chi il tuo messaggio non raccoglie,
se c’è per altra via chi vuole andare
ed alle ortiche affida le sue spoglie.
Nel ricordo m’appar verso l’Altare
volto nel punto dell’Elevazione,
mentre si unisce a lui nell’invocare
la voce dei coristi e di Bronzone.
Più tempo passa e più tornano in mente
della gioia i momenti e del dolore:
restano dentro il cuor teneramente
col primo bacio del mio primo amore.
Voce profonda ed ampia, suadente,
prezioso dono umano passeggero
or dolce, or grave, or debole, or possente,
fosti espressione vera del mistero
che il mondo regge. Te n’andasti un giorno
di dentro il petto che ti portò in giro
per l’universo. Per non far ritorno
volasti via con l’ultimo sospiro!
Lungo le strette vie del castello
andar di notte, quando tutto tace,
il rumor della sega e del martello
pare d’udir di chi lavora in pace;
ma il falegname, il fabbro, il calzolaio
più non ci sono dentro queste mura.
C’è rimasto soltanto un macellaio,
un negozio modesto di verdura,
uno di fiori, due d’alimentari,
un bar in piazza, due fuor delle Porte;
i motivi di vita sono rari:
per chi giovane fu questa è la sorte!
Antico borgo, che implorar non sai
chi potrebbe cambiare il tuo destino,
nelle tue glorie all’ombra te ne stai
della torre di piazza e San Martino.
Ma quando il soffio della primavera
torna a sfiorar la natura intorno,
ogni contrada con la sua bandiera
giovinezza ti dà per qualche giorno;
quattro son le contrade, oltre le porte:
le Fonti, Refenero, la Stazione
che salgono dal basso a la tua corte,
mentre dall’alto a te scende il Cavone.
Festa di luci, tripudio di colori,
canti festosi, cori di campane,
visi ridenti ed esultar di cuori,
ritrovate amicizie già lontane,
vociare immenso, rullo di tamburi,
per le tue vie la folla scende in festa,
l’inusual frastuono dentro i muri
è grande sì da far girar la testa.
S’aprono le finestre ed i balconi,
nessuno si rifiuta d’ospitare
in casa sua tutte le emozioni
che dan gioia di vivere e ballare.
Godi, paese mio, questo momento
di baldoria, allegria, grande gioia:
arriverà furtivo insieme al vento
chi ti riporterà dentro la noia.
Saprai, però, con il passar delle ore,
che chi da te al tramonto s’allontana
ti porterà per sempre dentro il cuore
come il gioiello della Valdichiana!
Silvano Pagliai - gennaio 1995
Si ringrazia Silvano Pagliai e l'Accademia degli Oscuri per aver concesso questa poesia sul nostro amato paese
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